Teatro

Eugenio Monti Colla: l'ho sempre vista come un'arte purificatrice

Eugenio Monti Colla: l'ho sempre vista come un'arte purificatrice

Il motivo per cui l’insegna in via Montegani cita “Atelier” e non semplicemente “Teatro” lo si capisce solo trovandosi nel seminterrato della palazzina che ospita la “Carlo Colla e figli”. Uno spazio neanche molto grande accoglie un laboratorio di falegnameria dove le marionette prendono vita, una sartoria, una stanza per il trucco e il parrucco. C’è un locale guardaroba, un piccolo magazzino per il materiale di scena, molto simile a un negozio di antiquariato, e uno, più grande, per le marionette. A vederle, appese ai loro lunghi fili, sembrano un vero esercito e, a dir la verità, incutono un certo timore. Hai quasi la sensazione che, non appena ti girerai, queste incredibili realizzazioni antropomorfe, dallo sguardo intenso e dalle espressioni eloquenti, siano pronte a prender vita. Chissà se è vero? Per scoprirlo siamo andati a trovare il celebre signor Mangiafuoco milanese, Eugenio Monti Colla. Chi, se non lui, può saperlo meglio degli altri?
Signor Monti, cosa rappresenta per lei la marionetta: un amico, un nemico oppure un complice?
«Da un lato, è il mezzo con il quale riesco a esprimermi meglio. Dall’altro, invece, è un grosso e prepotente nemico che cerca in continuazione di dominarmi, di far vivere lui e i suoi sentimenti attraverso di me. A dire il vero, nel nostro rapporto c’è poca complicità, ma tanto adattamento. E adattarsi tocca quasi sempre a me».
E’ vero che tra i vari generi del teatro di animazione, quello marionettistico è il più difficile?
«Credo che lo sia per la sua assomiglianza all’arte di suonare uno strumento musicale a corde. A dispetto di quel che si pensa, non si tratta soltanto di tirare i fili, ma di farli vibrare, di solleticarli».
E quanti ne può avere una marionetta?
«Si parte da un minimo di due fino ad arrivare a venticinque o addirittura trenta fili, a seconda di quello che la marionetta deve fare».
E tutti vengono “solleticati” da una sola persona?
«Dipende. Per esempio, nel nostro ultimo spettacolo, “La Tempesta” di Shakespeare, in alcuni momenti Calibano è guidato contemporaneamente da tre attori. Se, invece, il disegno scenico prevede un corteo o un drappello di soldati, le marionette vengono legate insieme e una persona può muoverne anche quattro».
Probabilmente, ciò richiede una notevole sintonia…
«Un grande affiatamento, come nella danza. Sbirciando dietro le quinte, sul ponte delle manovre in questi momenti si può osservare uno strano minuetto a due o a tre».
Capita di dare delle gomitate ai colleghi?
«Eccome! E anche di prenderne».
A parte non confondere i fili, qual è la prima cosa che deve imparare un marionettista?
«Ce ne sono diverse, ma la prima in assoluto è la percezione del piano del pavimento. Se non lo fa, vediamo la marionetta o librare sopra il palco o camminare con le ginocchia piegate. Cose che a un buon marionettista non devono mai accadere».
Chi fa per voi le marionette?
«Facciamo tutto noi nell’atelier: progettiamo, scolpiamo,cuciamo. In più, costruiamo e dipingiamo le scenografie».
Anche su commissione?
«Non capita spesso, ma abbiamo tutti i mezzi per farlo».
Riutilizzate le marionette o per ogni spettacolo costruite delle nuove?
«Dipende dallo spettacolo e dai personaggi. In generale, considero le marionette come gli attori che, truccate e abbigliate adeguatamente, possono interpretare varie parti. E non perché non ne abbiamo abbastanza».
E quante ne avete?
«Quando ho cominciato a lavorare, la collezione Colla contava 613 marionette. Oggi ne abbiamo 2570, più i costumi, il materiale di scena e circa diecimila scenografie».
Tra tutte queste ha una marionetta preferita?
«Potrei dire quelle che non mi piacciono, ma una preferita no, non c’è l’ho ».
C’e’ uno spettacolo lei considera il capolavoro della compagnia?
«Amo moltissimo “Il gatto con gli stivali”. Mi ricordo ancora quelle forti emozioni che, da bambino, mi faceva venire. La compassione per gli esseri umani, per la vita in generale che questo spettacolo conteneva mi facevano stringere il cuore e letteralmente perdere la testa. Credo di aver imparato cos’erano i cosiddetti “buoni sentimenti” di una volta proprio grazie alle marionette. Perché ogni spettacolo che la compagnia metteva in scena non era un semplice giochino con quattro pupazzetti, ma conteneva una morale profonda ed edificante che a uno spettatore accorto e sensibile non poteva mai sfuggire ».
Intende il periodo quando la compagnia risiedeva al teatro Gerolamo di Milano?
«La mia famiglia rimase all’interno del teatro Gerolamo di piazza Beccaria dal 1906 al 1957, l’anno in cui il Comune di Milano ha deciso di abbattere lo stabile e di sfrattarci. Io praticamente ci sono nato dentro e così come per quasi tutti i bambini della zona, è stato il posto dove giocavo e passavo il mio tempo libero. Soprattutto d’estate, quando non c’erano gli spettacoli».
Parlando della stroria del teatro delle marionette, si dice che la sua comparsa in Italia corrisponda alla nascita del teatro lirico.
«Un po’ prima direi. I primi teatrini delle marionette sono apparsi nei salotti aristocratici alla fine dei seicento assieme al melodramma giocoso. Successivamente, a metà del settecento, con l’arrivo delle musiche di Vivaldi e dei testi di Goldoni, il teatro delle marionette esce sulle piazze per riproporre al pubblico cittadino il repertorio dei grandi teatri in una versione più popolare, più riassuntiva. In sostanza, chi non si poteva permettere un biglietto a La Scala, andava a vedere la stessa opera interpretata dalle marionette. Malgrado tutta la loro sinteticità, spesso queste rappresentazioni si presentavano addirittura più curate e fantasiose nei dettagli rispetto alle messinscena originali. Per esempio, nei costumi di scena. Oggigiorno pochi sanno che ancora all’inizio del secolo scorso procurarsene uno era a carico dell’attore stesso. Quindi, capitava, che uno arrivasse vestito di rosso di foggia romana, l’altro di verde in stile egiziano e insieme dovevano rappresentare un soggetto babilonese. Con le marionette questo non accadeva mai. Oppure il fatto di portare in scena gli animali. Soprattutto oggi, per motivi ben noti, nessun teatro può più farlo. Nella nostra “Aida” invece ce ne sono di tutte le razze: cammelli, cavalli, elefanti. Ricordiamo anche che molti artisti che allestivano gli spettacoli per il Teatro Reggio di Torino e La Scala di Milano dipingevano le scenografie anche per il Gerolamo. Ovviamente in miniatura».
Quindi non era un teatro per i bambini come molti pensano?
«Non lo è mai stato. Malgrado la sua apparente semplicità, è sempre stato un teatro che portava nella società tutto quello che era all’avanguardia: dalla musica ai grandi testi letterari, dall’attualità alla politica, spesso rivisitate e commentate in chiave satirica».
Perché allora persiste questa convinzione comune?
«La colpa, in parte, è attribuibile ai tempi e, in parte, ai marionettisti stessi. Con l’arrivo nelle sale cinematografiche alla fine degli anni trenta di “Biancaneve e i sette nani” molti di loro, credendo che fosse il modo migliore per fare gli spettacoli, hanno rinunciato alla propria creatività e hanno cominciato a copiare la Disney. Quindi il livello di qualità si è abbassato molto e ho visto diverse compagnie che, esaurita la vena hollywoodiana, sono state costrette a chiudere perché non erano più capaci di inventare».
Il vostro ultimo spettacolo, “La tempesta”, a cui lei ha accennato prima, sicuramente fa parte del repertorio adulto. Com’è nata l’idea?
«C’è da dire che non è un lavoro nuovo. E’ un nostro spettacolo dell’85’ basato sul testo della tragedia shakespeariana tradotta in napoletano del 600’ da Eduardo De Filippo. Abbiamo voluto riprenderlo quest’anno per celebrare il trentennio dalla sua scomparsa. La proposta allora era arrivata dalla sua famiglia. Erano alla ricerca di una forma di teatro popolare per portare in scena “La tempesta”. Inizialmente avevano pensato ai pupi siciliani, ma poi la scelta è caduta su di noi. Fummo contattati da Franco Quadri, all’epoca responsabile della sezione teatro alla Biennale di Venezia, e proprio quando avrei dovuto cominciare a parlare con Eduardo questi se ne andò. Assieme al suo figlio Luca abbiamo continuato il lavoro presentandolo a Venezia. Lo spettacolo ha avuto un grande successo sia in quell’occasione che questa volta a Prato, il mese scorso. Lo riprenderemo a giugno al Piccolo di Milano».
In generale, dove prende le idee per i nuovi spettacoli?
«Alcune le coltivo da molti anni. Per esempio, “Ali Baba”. Dopo la storia di Aladino, mi piaceva molto l’idea di prendere questa seconda fiaba da “Le mille e una notte” in cui i protagonisti discendono nelle viscere della Terra. E’ un concetto molto antico che risale addirittura all’Odissea, con Ulisse che si addentra e si cala nel regno dei morti per incontrare la madre e i compagni trapassati.
Le altre nascono in occasione di qualche ricorrenza o di un progetto specifico. Quest’anno, per celebrare il bicentenario di Verdi, ho pensato di allestire “Attila”. La trovo un’opera bellissima, ma sovente un po’ maltrattata. Il vizio di renderla più moderna - i personaggi in divise naziste, con anfibi e così via - mi da molto fastidio. Mi chiedo sempre: uno spettatore giovane che si avvicina alla lirica cosa capisce della trama? Probabilmente nulla.
Molto spesso, però, ci arrivano delle commissioni. Qualche tempo fa gli organizzatori del festival di Händel ci hanno proposto “Rinaldo”. Non avrei mai pensato di poterlo fare con le marionette. Mi sembrava quasi una profanazione. Invece ha funzionato benissimo».
I vostri spettacoli sono sempre accompagnati da musiche e da voci registrate. Ma voi stessi non recitate mai?
«Al Gerolamo, dove sono cresciuto, recitavano gli stessi marionettisti. Ma era un teatro piccolo, di 300 posti. A noi invece capita spesso di esibirci in sale grandi dove recitare dal vivo diventa un problema: senza l’amplificazione la voce oltre la platea non arriva, ma nello stesso tempo sul ponte delle manovre non si possono collocare dei microfoni per via dei troppi rumori tecnici. Quindi abbiamo adottato questa soluzione».
Le voci sono vostre?
«Sono di attori che conosciamo da almeno venticinque anni che sanno come recitare per le marionette».
Quando siete all’estero, registrate in lingua?
«Generalmente sì. Soltanto in Germania ci chiedono gli spettacoli in italiano. Ovviamente per le opere con le voci di Callas e Di Stefano facciamo uso dei sottotitoli».
E a voi non viene mai voglia di recitare?
«A me personalmente, no».
Qual è lo spettacolo che l’ha impegnata di più ultimamente?
«“Il giro del mondo in 80 giorni”. L’abbiamo ripreso dall’antico repertorio della compagnia e rifatto completamente. E’ uno spettacolo molto dinamico, molto ingombrante e con un gran numero di personaggi per alcuni dei quali – per esempio Passepartout - vengono usate fino a otto marionette. Se un giorno avremo un museo, quelle vecchie marionette sicuramente saranno esposte come i pezzi più preziosi».
Lei è stato fortunato perché è cresciuto nell’ambiente giusto e non ha avuto difficoltà a imparare. E se uno volesse fare il marionettista, come può fare?
«Le persone che oggi formano la nostra compagnia hanno imparato il mestiere qui dentro. Siamo in undici e quasi tutti sono miei ex alunni».
Ha insegnato in una scuola di teatro?
«No, ho insegnato per vent’anni storia e lettere in una scuola media. I colleghi di cui sto parlando sono i miei ex studenti delle medie che, incuriositi di questa mia attività extra scolastica, da ragazzi, sono venuti a trovarmi. E sono rimasti».
Riusciva a riconciliare l’insegnamento e l’attività teatrale?
«Ho condotto questa “doppia” vita fino all’83’. Poi, quando il numero delle tournèe è aumentato e il teatro ha cominciato a richiedere da me più impegno, ho dovuto scegliere cosa mi piaceva fare di più».
Esiste in Italia una scuola vera e propria per diventare marionettisti?
«Una scuola vera e propria l’abbiamo aperta noi alcuni anni fa e l’abbiamo chiusa perché la maggior parte delle persone che si presentavano consideravano la marionettistica una specie di artigianato, senza riuscire a cogliere la visione di tutti i suoi aspetti culturali e, soprattutto, filosofici».
Insomma, per diventare un marionettista bisogna andare a bottega?
«Per ora sì».
A Milano ci sono due compagnie che riportano il nome Colla. Siete dei parenti?
«Lontani. Le due compagnie si sono divise nel 1861, a partire della generazione dei cugini di mio nonno. Da allora ognuno ha perseguito la propria strada: noi abbiamo continuato ad occuparci delle marionette tradizionali, l’altro ramo Colla ha scelto un altro percorso, dedicandosi soprattutto ai bambini e creando un teatro di marionette e attori».
Una volta, lei ha detto che i Colla erano severissimi con i loro collaboratori. E lei?
«No, io no. Ho vissuto con la famiglia Colla un rapporto sotto certi aspetti conflittuale, ma bellissimo. E ho voluto creare nella mia compagnia quel forte legame, quello spirito di complicità e di amicizia che univa tutti gli abitanti del teatro della piazza Beccaria. Considero i miei collaboratori come fossero dei figli purché non mi chiedano troppo come padre».
Ma in generale, un marionettista può essere una persona cattiva?
«Oh, sì. Un marionettista senz’altro può essere invidioso, geloso, prepotente come ogn’altro essere umano. Tuttavia, l’esperienza di vita di tutti i miei zii, mi ha sempre mostrato questa come un’arte purificatrice. Certamente, non per tutti».